Procrastinare rivela a volte semplicemente la paura del futuro. Quando rimandiamo, siamo schiavi dell’incertezza che ci assale, non stiamo solo evitando un compito: stiamo provando a mettere a tacere un dono che ci spaventa. L’incertezza è un dono: restituisce libertà. Apre possibilità non programmate, allarga la stanza delle scelte, ci consente di non essere compressi in un’unica versione di noi. Eppure proviamo a anestetizzarla, a congelarla. Nel frattempo il tempo scivola via lento e denso come miele su una superficie fredda: non si ferma per pietà, non si sbriga per convenienza. Con lui scivolano anche le occasioni, che bussano piano e poi più forte: se non si apre, restano fuori, insieme ai progetti e alle relazioni che chiedono la nostra presenza viva, non la nostra perfezione.
Il procrastinare ha l’odore della stanza chiusa: all’inizio non si nota, poi la stanchezza diventa sfondo di ogni respiro. Basta però socchiudere una finestra perché entri una corrente imprevedibile: le tende si muovono a modo loro, un foglio vola, l’aria mescola profumi che non abbiamo scelto. Quell’imprevisto è fastidio e grazia insieme, ma soprattutto è libertà che rientra, come una musica non prevista che ci prende per mano. Ci ricorda che non siamo direttori d’orchestra del mondo, e che proprio lì, nella quota che non dirigiamo, abita la nostra capacità di cambiare passo. Si diventa abilissimi a spostare tutto in un futuro indefinito pur di evitare il “qui e ora”. Eppure è “qui e ora” che accadono movimento, scena, incontro: dove la curiosità si scioglie e l’avventura ricomincia. Rimandare non solo rallenta ciò che c’è da fare: restringe la nostra libertà, irrigidisce lo sguardo, addormenta il coraggio. Intorno nasce un pantano di “quasi” e “poi”, dove tutto procede a passo di bradipo o non procede affatto. Anche chi è vicino lo sente: riunioni che slittano, messaggi non inviati, promesse evaporate. Nascono distanza e irritazione, ma soprattutto perdiamo un bene sottile: la possibilità di stupirci insieme del modo in cui l’imprevisto ci libera dalle nostre previsioni.
Nella pausa senza fine prende forma una stasi pratica ed esistenziale. La pigrizia non è un vizio: è l’esito di mille micro-rinunce al primo passo, tentativi minuti di tenere a bada ciò che sfugge. Eppure l’incertezza non si placa sconfiggendola: si trasforma quando la si attraversa. Non evapora da sé come nebbia al sole, ma diventa bruma amica se la guardiamo da vicino, con gentile fermezza. In quel momento riprende a donarci libertà: quella di cambiare idea, di correggere la rotta, di scoprire possibilità che da fermi non esistono. Quando arriva l’impulso a procrastinare, possiamo fare silenzio e nominarlo: “Ho paura di ciò che non so”. Poi scegliere un gesto piccolo e concreto che accolga quella paura invece di respingerla. Non serve un’impresa, serve un varco. Un varco è una porta che ammette spifferi, difetti, tentennamenti; è l’accesso a un terreno che si disegna passo dopo passo, cioè allo spazio libero delle scelte.
Superare l’inizio significa entrare nel presente. Inizio viene da inire: andare dentro. Dentro a cosa? Dentro alla realtà, anche se scomoda. Dentro alla telefonata che potrebbe non andare come previsto, alla pagina che potrebbe non brillare, all’allenamento che potrebbe far male, alla conversazione che potrebbe incrinare un equilibrio, alla decisione che apre scenari non governabili da subito. Finché restiamo fuori, restiamo anche contro: in opposizione leggera ma ostinata a ciò che c’è, come in un’attesa che non esplode mai. L’unico modo di negoziare col non-sapere è entrarci, accettando che l’ignoto ci scompigli i capelli e ci insegni un ritmo nuovo. È così che l’incertezza mostra il suo volto generoso: non ci punisce, ci slega.
Entrare nella dimensione operativa spezza l’incantesimo della paralisi. Non occorre che sia perfetto, occorre che sia vero. La verità del gesto non garantisce l’esito, ma garantisce presenza: ed è la presenza a restituirci libertà di movimento. Si può cominciare con il più piccolo dei passi: aprire un file e scrivere una riga qualunque, preparare la borsa e uscire senza mappa conclusiva, impostare un timer da dieci minuti e vedere che succede, fare una telefonata accettando anche il balbettio, mettere in ordine tre oggetti come fossero tre ancore, inspirare ed espirare contando fino a cinque, dire “adesso” a bassa voce. Sono scommesse minute: non promettono nulla, ma rivelano ogni volta un centimetro di strada che prima non c’era. Gocce che, cadendo regolari, scavano la pietra e ridisegnano il corso dell’acqua: il corso della nostra libertà.

Riconoscere che l’inizio è una soglia cambia l’energia. C’è un prima, fatto di pensieri che girano su se stessi, di progetti lucidati a specchio, di controllo che si stringe. E c’è un dopo: il flusso imperfetto dell’agire, con i suoi intoppi creativi, dove il tempo si dilata e lo spazio di scelta aumenta. Oltre la soglia, la mente smette di trattare e comincia a collaborare, il corpo trova ritmo. Ci accorgiamo che non era la montagna a essere impossibile: era solo la porta incollata dalla paura. Ci accorgiamo che la realtà non pretende perfezione: pretende pratica e presenza. E la presenza chiama a raccolta motivazione, chiarezza, energia, talvolta gioia. Chiama anche errori, correzioni, deviazioni: ma è in quelle curve che la libertà si fa sentire, perché possiamo riorganizzarci mentre procediamo. Avventura, dopotutto, viene da ciò che “viene verso”: l’incerto che ci raggiunge e ci apre.
A volte si parte quando si è alle strette, ma non serve aspettare il bordo del precipizio per saltare. Si può scegliere l’inizio per gusto di vivere, per rispetto di sé, per tenerezza verso chi cammina accanto. Si può trasformare il “poi” in “ora” con un rituale umile: sedersi, nominare ciò che conta, muovere il primo millimetro. E lasciare una finestra socchiusa perché l’imprevisto entri e faccia il suo lavoro di maestro. Non riusciremo a orchestrare tutto: meno male. Senza quel margine di sorpresa, la vita smetterebbe di insegnare e la libertà di respirare.
Entra nel presente come in una stanza luminosa: la luce non è uniforme, ci sono coni d’ombra, riflessi indocili, polvere che danza. Lasciali esistere. Entra nella realtà, gradevole o sgradevole, e permetti che ciò che accade ti cambi mentre cominci. Non serve vedere il percorso intero: basta la prima pietra illuminata. Non serve sentirsi pronti: la prontezza nasce nell’azione e nell’ascolto delle sue conseguenze. Non serve un coraggio titanico: basta il coraggio sufficiente a ospitare l’incertezza al tavolo, versarle un bicchiere d’acqua e dirle “resta finché serve”. In quel brindisi lieve, la vita ricomincia a muoversi. E, muovendosi, ci ricorda che l’incertezza è un dono: restituisce libertà, la libertà di sorprenderci del modo, sempre diverso, in cui le cose prendono forma.